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Furto in abitazione: legittimo il divieto di sospensione della pena

Diritto Penale

Furto in abitazione: legittimo il divieto di sospensione della pena

La Corte costituzionale, con sentenza n. 216/2019, salva l’art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p. e lancia un motivo al Legislatore per rimuovere il difetto di coordinamento tra la disciplina processuale e quella sostanziale relativa ai presupposti per accedere alle misure alternative alla detenzione.

Il caso

Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Agrigento, in funzione di giudice dell’esecuzione, sollevava, in riferimento agli artt. 3, comma 1, e 27, comma 3, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., nella parte in cui stabilisce che la sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 della medesima disposizione non può essere disposta nei confronti dei condannati per il delitto di furto in abitazione di cui all’art. 624-bis, comma 1, c.p.

Ad avviso del remittente, la disposizione censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3, comma 1, Cost., in ragione del suo contrasto con i principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità. Invero la disposizione in esame determinerebbe, da un lato, un ingiustificato deteriore trattamento per il furto in abitazione rispetto alle omologhe figure del furto con strappo e del furto pluriaggravato, non interessate dal divieto; e, dall’altro, un parimenti ingiustificato trattamento deteriore del furto in abitazione rispetto ai più gravi delitti di rapina ed estorsione, parimenti non abbracciati – nelle forme non aggravate – dal divieto in esame.

La previsione censurata si esporrebbe dunque, che hanno condotto la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 125 del 2016, a dichiarare l’illegittimità costituzionale del divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione in relazione ai condannati per furto con strappo, previsto al secondo comma dello stesso art. 624-bis c.p., in relazione in particolare all’agevole ipotizzabilità di “casi in cui, nel progredire dell’azione delittuosa, il furto con strappo si trasforma in una rapina, per la necessità di vincere la resistenza della vittima, o anche in una rapina impropria, per la necessità di contrastare la reazione della vittima dopo la sottrazione della cosa”.

Ancora, la disposizione censurata si fonderebbe su un irragionevole quanto aprioristica presunzione di pericolosità, che colpirebbe anche chi abbia commesso un reato di modesta gravità, riportando condanna a una pena detentiva breve.

La disposizione in parola violerebbe, altresì, il principio rieducativo di cui all’art. 27, comma 3, Cost., perché la rigida applicazione rigida e automatica della detenzione, senza possibilità di valutazione – anteriore all’ingresso nell’istituto di pena del condannato – da parte del tribunale di sorveglianza, risulterebbe contrasto con il finalismo rieducativo della pena.

Infine, ad avviso il giudice a quo osserva come la prospettata questione di legittimità costituzionale sarebbe corroborata anche dalla giurisprudenza della Corte EDU, rispetto agli obblighi da essa fissati nei confronti dell’ordinamento italiano in relazione al superamento della situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari.

La decisione della Corte

Le questioni sono state dichiarate infondate.

La Corte, in primo luogo, ha escluso la ventilata irragionevole disparità di trattamento tra i condannati per furto in abitazione e i condannati per rapina, confutando la prospettazione del remittente, che aveva tratto un argomento ritenuto decisivo dalla sentenza n. 125 del 2016.

In quella decisione, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione originariamente previsto dall’art. 656, comma 9, c.p.p. nei confronti dei condannati per furto con strappo, la Corte ritenne manifestamente irragionevole una disciplina che prevedeva un trattamento processuale deteriore per un delitto – il furto con strappo – certamente meno grave di quello – la rapina semplice, nella sua forma “propria” (art. 628, comma 1, c.p.) o “impropria” (art. 628, comma 2, c.p.) – nel quale è agevole ipotizzare che il primo delitto possa trasmodare, in relazione alla possibile, e statisticamente frequente, reazione della vittima.

E tuttavia, ha osservato la Corte, una situazione del genere non è pertinente in relazione al furto in abitazione, il quale è destinato a trasmodare non già nel delitto di rapina semplice, bensì in quello di rapina aggravata ai sensi dell’art. 628, terzo comma, n. 3-bis, c.p., per essere stato commesso il fatto nei medesimi luoghi indicati dall’art. 624-bis, comma 1, c.p.; si tratta di un’ipotesi aggravata compresa nell’elenco dei delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1-ter, l. 26 luglio 1975, n. 354, per i quali pure opera il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto per il (mero) furto in abitazione.

La Corte ha parimenti escluso ogni irragionevolezza del trattamento previsto per i condannati per furto in abitazione rispetto a chi si sia stato condannato per furto con strappo (dopo la menzionata sentenza n. 125 del 2016) ovvero per altre ipotesi di furto aggravato o pluriaggravato. A tal proposito, la Corte ha evidenziato come il divieto di sospensione dell’ordine dell’esecuzione trova “la propria ratio nella discrezionale, e non irragionevole, presunzione del legislatore relativa alla particolare gravità del fatto di chi, per commettere il furto, entri in un’abitazione altrui, ovvero in altro luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, e della speciale pericolosità soggettiva manifestata dall’autore di un simile reato”.

La Corte, inoltre, ha fugato ogni dubbio circa un irragionevole e “aprioristico” automatismo della disposizione censurata; anche in tal caso, la valutazione discrezionale, ma non irragionevole, del legislatore, si fonda su un giudizio di “pericolosità individuale evidenziata dalla violazione dell’altrui domicilio”, ciò che rappresenta “ragione sufficiente per negare in via generale ai condannati per il delitto in esame il beneficio della sospensione dell’ordine di carcerazione, in attesa della valutazione caso per caso, da parte del tribunale di sorveglianza, della possibilità di concedere al singolo condannato i benefici compatibili con il suo titolo di reato e la durata della sua condanna”.

Quanto alla dedotta violazione del principio del necessario finalismo rieducativo della pena, la Corte ha evidenziato come una valutazione del genere è “demandata al tribunale di sorveglianza in sede di esame dell’istanza di concessione dei benefici, che il condannato può comunque presentare una volta passata in giudicato la sentenza che lo riguarda”.

Con riguardo alla compatibilità della disposizione censurata con la giurisprudenza della Corte EDU dei diritti dell’uomo che concerne la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, la Corte ha ribadito che la concreta applicazione del meccanismo di sospensione automatica dell’ordine di esecuzione è comunque rimessa alla “discrezionalità del legislatore, sempre entro i limiti segnati dalla non manifesta irragionevolezza, nella definizione delle categorie di detenuti che di tale meccanismo possono beneficiare”.

Pur salvando la disposizione censurata, la Corte non ha mancato di segnalare “al legislatore, per ogni sua opportuna valutazione”, un profilo di incongruenza, derivante dal “difetto di coordinamento attualmente esistente tra la disciplina processuale e quella sostanziale relativa ai presupposti per accedere alle misure alternative alla detenzione, in relazione alla situazione dei condannati nei cui confronti non è prevista la sospensione dell’ordine di carcerazione ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p., ai quali – tuttavia – la vigente disciplina sostanziale riconosce la possibilità di accedere a talune misure alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena”; ed è proprio il caso dei condannati per i reati elencati dall’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., diversi da quelli di cui all’art. 4-bis l. n. 354 del 1975, per i quali l’accesso ai benefici penitenziari è invece subordinato a specifiche stringenti condizioni.

Specie nel caso di pene detentive di breve durata, di solito indicative di solito di una minore pericolosità sociale del condannato, può infatti accadere “che la decisione del tribunale di sorveglianza intervenga dopo che il soggetto abbia ormai interamente o quasi scontato la propria pena”. Ed è questa un’eventualità “non infrequente, stante il notorio sovraccarico di lavoro che affligge la magistratura di sorveglianza, nonché il tempo necessario per la predisposizione della relazione del servizio sociale in merito all’osservazione del condannato in carcere”.

Esito del ricorso:

dichiarazione di infondatezza

Riferimenti normativi:

Art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p.