La separazione consensuale è possibile soltanto se tra i coniugi viene raggiunto un accordo sulle condizioni che dovranno reggere i rapporti personali e patrimoniali reciproci e i rapporti di ciascuno con i figli. Se l’accordo non viene raggiunto, la separazione sarà inevitabilmente giudiziale, nel senso che le condizioni della separazione verranno stabilite dal tribunale. L’accordo è possibile anche durante lo svolgimento del giudizio; in tal caso, la separazione, avviata come giudiziale, verrà definita come consensuale. La separazione consensuale è preferibile poichè riduce tempi e costi, oltre a favorire rapporti più sereni tra le parti.
Sì, a partire dal dicembre 2014 è possibile separarsi, come pure divorziare evitando la procedura davanti al tribunale.
Si tratta di una procedura semplificata, denominata “negoziazione assistita”. Essa si svolge e si conclude con l’assistenza degli avvocati, i quali, una volta firmato l’accordo tra marito e moglie, trasmettono detto accordo alla Procura della Repubblica per un controllo di regolarità.
Dopodiché, l’accordo viene pubblicato nei registri dello stato civile. La separazione il divorzio si intendono perfezionati fin dal momento della firma dell’accordo.
Sì, la separazione semplificata (e così pure il divorzio) mediante negoziazione assistita dagli avvocati è possibile anche in presenza di figli, e anche quando i figli sono minori di età oppure maggiorenni ma economicamente non autonomi, o portatori di handicap grave.
In questi casi, tuttavia, una volta che l’accordo è stato concluso e trasmesso al Procuratore della Repubblica, può accadere che il Procuratore lo ritenga non conforme all’interesse dei figli minori, e lo trasmetta al Presidente del tribunale. Questi convoca le parti entro i successivi 30 giorni.
Sì, è possibile modificare quanto già concordato in sede di separazione consensuale o deciso dal giudice. A partire dal dicembre 2014, tale modificazione può essere concordata e realizzata dai coniugi (o dagli ex coniugi) anche senza dover tornare davanti al giudice. Non è più necessario, in altri termini, che l’accordo di modifica venga ratificato dal tribunale.
Occorre, però, che nella situazione di fatto siano intervenute variazioni che giustificano la revisione delle regole vigenti, come per esempio il trasferimento di uno dei coniugi con il figlio in una città lontana oppure il mutamento della condizione economica di uno dei due.
Prima di divorziare bisogna procedere con le pratiche per la separazione, che può essere consensuale, quando c’è accordo tra i coniugi, o giudiziale, nel caso contrario. Dopo tre anni dall’udienza di comparizione davanti al giudice della separazione, e sempreché sia stata pronunciata quest’ultima, si può chiedere il divorzio. Il divorzio comporta la fine del matrimonio, ovverossia il venir meno del vincolo coniugale.
Rimane, però, un vincolo di solidarietà sul piano economico, da cui sorge il diritto all’assegno divorzile per il coniuge che non abbia mezzi economici adeguati a conservare il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.
L’accertamento del giudice deve tenere conto non solo del reddito lavorativo, ma di ogni genere di entrata, compresa la titolarità di cespiti patrimoniali
Nel nuovo assetto determinato dalla legge n. 54/2006 (cd. legge sull’affidamento condiviso), resta salvo il principio per cui la casa familiare viene assegnata tenendo conto, prioritariamente, delle esigenze dei figli. Ciò comporta che la casa venga assegnata al genitore presso il cui quale continuerà ad abitare il figlio (minorenne o maggiorenne non economicamente autonomo).
L’elemento di novità rispetto al sistema previgente è dato dalla previsione esplicita che l’assegnazione della casa all’uno o all’altro coniuge costituisce fattore di rilievo economico, di cui il giudice deve tenere conto nella determinazione dell’assetto economico della separazione.
Qualora non vi siano figli, l’abitazione familiare non può essere assegnata ad alcuno dei coniugi.
Anche per il mantenimento dei figli la riforma sull’affidamento condiviso ha apportato importanti modifiche.
Non vale più la regola per cui spetta al genitore non affidatario (generalmente il padre) corrispondere all’altro un assegno mensile, ma questo assegno – detto oggi ‘perequativo’ – è dovuto soltanto se sussista una sostanziale disparità di reddito tra i genitori. Dovrebbe valere, in generale, il criterio del mantenimento diretto.
Per determinare l’ammontare dell’assegno perequativo, occorre poi fare riferimento ad una serie di parametri indicati dalla legge, tra cui i tempi di permanenza del figlio presso l’uno e l’altro genitore e altresì la disponibilità della casa familiare.
Il rifiuto del figlio di incontrare uno dei genitori non è raro, e si ricollega ad una molteplicità di motivi. Tra questi va compreso talvolta il condizionamento, magari involontario, dell’altro genitore.
Quando il problema si verifica, non bisogna restare passivi, dato che più tempo passa, più è probabile che la situazione si cristallizzi. L’ordinamento contempla vari strumenti, tra i quali l’avvocato dovrà orientarsi a seconda della situazione specifica.
Talvolta, nei casi più gravi, insorge una vera e propria sindrome descritta dalla letteratura scientifica, che va sotto il nome di PAS O SAP (sindrome di alienazione parentale), e da accertarsi in sede peritale, con una consulenza tecnica.
Con la riforma del 2006 è stata introdotta la possibilità di ricorrere al giudice nel caso in cui l’altro genitore violi le disposizioni sull’affidamento condiviso, o si renda autore di gravi inadempienze: il giudice può ammonire il responsabile o comminare a suo carico una sanzione pecuniaria o anche condannarlo al risarcimento del danno arrecato al figlio e/o al coniuge.
Il nostro ordinamento non contempla diritti successori a favore del convivente. Questi ha diritto ad una parte dell’eredità nel solo caso in cui il partner premorto abbia fatto testamento. Il testamento deve in ogni caso rispettare i diritti attribuiti dalla legge agli eredi cd. Legittimari.
L’amministrazione di sostegno è una misura di protezione, introdotta con la legge n. 6 del 2004, che ha lo scopo di tutelare le persone prive in tutto o in parte di autonomia, senza però mortificarle.
L’amministrazione di sostegno interviene, in altri termini, a supporto di quei soggetti che non appaiono in grado di (o che incontrano serie difficoltà nel) compiere gli atti e le operazioni della vita quotidiana e di curare i propri interessi.
L’amministratore di sostegno è, dunque, una persona nominata dal giudice tutelare che affianca o, a seconda dei casi, sostituisce il cd. beneficiario nel compimento degli atti della vita di ogni giorno.
Destinatari dell’amministrazione di sostegno sono gli individui portatori di un disagio (dovuto all’età avanzata, o ad una malattia o ad una invalidità fisica o psichica, o di natura sensoriale) che rende loro arduo, nella quotidianità, far fronte al concreto svolgimento di una o più attività.
Di norma vengono preferite persone legate da parentela con il beneficiario, ma può essere anche designata una persona estranea che venga ritenuta idonea a garantire il rispetto degli interessi del soggetto bisognoso. In ogni caso, non si richiedono competenze specifiche per svolgere l’incarico.
L’amministratore di sostegno non potrebbe, in teoria, percepire alcun compenso per l’incarico: possono essergli riconosciuti soltanto un rimborso delle spese e, in taluni casi, un equo indennizzo stabilito dal giudice tutelare, in relazione al tipo di attività, in particolare a seconda dell’entità del patrimonio e della difficoltà dell’amministrazione.
No, i compiti dell’amministratore di sostegno vengono analiticamente stabiliti nel decreto di nomina, emesso dal giudice tutelare. Egli deve attenersi scrupolosamente a tali indicazioni. Se si presenta la necessità di porre in essere atti non previsti nel decreto, l’amministratore di sostegno deve rivolgersi al giudice e chiedere l’autorizzazione, nell’interesse esclusivo del beneficiario.
La durata varia a seconda dei casi. Spetta al giudice valutare se disporre una nomina a tempo indeterminato o per un tempo determinato. È sempre possibile la proroga successiva allo scadere del tempo inizialmente stabilito.
In termini riduttivi e schematici può dirsi che il danno esistenziale è la compromissione di un’attività realizzatrice della persona, determinata da un fatto illecito, cioè da una condotta dolosa o colposa di altri. Si tratta, in definitiva, del peggioramento della qualità della vita, dato che se mi ritrovo nell’impossibilità di dedicarmi alle mie abituali attività quotidiane, ne seguirà inevitabilmente un peggioramento della qualità della mia esistenza.
Si pensi ai familiari di chi resti invalido per un intervento chirurgico malriuscito. Quei familiari, essendo costretti ad assistere continuativamente il congiunto invalido, dovranno modificare le proprie abitudini di vita, magari cambiare orari di lavoro, rinunciare ad attività sportive e ricreative e via dicendo.
Il danno morale è il genere di pregiudizio che si determina nella sfera interiore della persona vittima di un illecito; esso consiste nell’emozione negativa, ovverossia nella sofferenza interna che la vittima prova a causa e per effetto dell’illecito. Vi rientra anche il lutto e, dunque, il danno morale può avere durata variabile e intensità differente da caso a caso.
È intuitiva, per esempio, la differenza che passa tra il sentimento di offesa che deriva da un’ingiuria o diffamazione e la sofferenza interiore conseguente alla perdita di una persona cara.
Il danno biologico è la sola figura di danno di natura non patrimoniale consacrato dalla legge. Ciò nonostante, non si tratta del tipo di danno più importante o del solo risarcibile. Esso consiste nella compromissione dell’integrità fisio-psichica della vittima di un illecito, da accertarsi in sede medico-legale e che viene espressa in numeri percentuali.
Alle diverse percentuali di invalidità biologica corrispondono valori tabellari sulla cui base, generalmente, il giudice commisura l’entità del risarcimento da riconoscere alla vittima. Le tabelle però non sono vincolanti.
Certamente sì, ma il presupposto immancabile, che deve essere accertato dal giudice, è che la morte sia stata provocata da una condotta dolosa o colposa di altri. Il risarcimento per la perdita di un familiare o di un parente comprende generalmente varie tipologie di danno sia patrimoniale, sia non patrimoniale. In quest’ultima categoria, oggigiorno, si fa rientrare il danno biologico, quello esistenziale e quello morale.
La denuncia, presentata dal Pubblico Ufficiale o dal privato, è uno dei mezzi attraverso il quale il Pubblico Ministero o la polizia giudiziaria prendono conoscenza di un fatto costituente reato (artt. 331 e ss. c.p.p.). Ai privati è anche concessa la facoltà di presentare denuncia oralmente (art. 333 c.p.p.). Nel caso di denuncia, il procedimento si avvia d’ufficio, cioè senza che sia necessario l’intervento della persona offesa dal reato.
Per poter invece procedere in ordine ad alcuni reati specifici, la legge richiede una ulteriore condizione (c.d. condizione di procedibilità) che consiste frequentemente nella cosiddetta querela (ad esempio per i reati di lesioni, percosse, ingiuria, diffamazione, etc.). Per querela si intende la manifestazione di volontà della persona offesa che si proceda in ordine ad uno specifico reato (artt. 336 e ss. c.p.p.). Anche la querela può essere presentata oralmente (e in questo caso si redige un verbale per iscritto ad opera dell’autorità che la riceve) e può essere altresì rimessa (cioè ritirata) o rinunciata (se non è stata ancora presentata). La legge prescrive inoltre che la querela debba essere presentata entro il termine perentorio di tre mesi.
L’art. 124 c.p. prescrive che la querela sia presentata nel termine perentorio di tre mesi dalla notizia del fatto costituente reato.
La giurisprudenza ha chiarito che tale termine comincia a decorrere dalla effettiva conoscenza del fatto che ha la persona offesa, anche in relazione alla sua qualifica di reato e alla individuazione dell’autore. Si può, ad esempio, sapere che è accaduto un determinato evento, ma non avere subito gli elementi per qualificarlo quale reato, oppure può esserci bisogno di tempo per esperire alcuni accertamenti al fine di conoscere chi è l’autore del fatto. In tali casi il termine comincerà a decorrere dal momento in cui il quadro oggettivo e soggettivo sarà completo, indipendentemente dal momento in cui è verificato il fatto.
Inoltre, l’onere di provare che la querela è stata proposta non tempestivamente grava su chi vuole far valere la decadenza, e l’eventuale incertezza deve essere interpretata a favore del querelante.
Se si è persona offesa dal reato, per ottenere il dovuto risarcimento, si hanno due possibilità alternative.
A. La prima possibilità è quella di costituirsi parte civile nel procedimento penale. Con l’atto di costituione di parte civile si determina l’inserzione di una richiesta risarcitoria di natura privatistica nel processo penale, andando ad aggiungere al processo una parte facoltativa (il processo penale, vede infatti come parti essenziali solo lo Stato, rappresentato dal Pubblico Ministero, e l’imputato). Con la costituzione di parte civile, il danneggiato dal reato, oltre a richiedere di essere risarcito per il danno subito, può anche partecipare al processo presentando testi, altri elementi di prova, memorie e consulenze.
B. Alternativamente alla costituzione di parte civile nel processo penale, il danneggiato dal reato può instaurare un normale procedimento di cognizione per responsabilità da fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale) innanzi al tribunale civile, il cui esito sarà peraltro indipendente dal procedimento penale, salvo che al momento dell’instaurarsi del processo civile, nel giudizio penale non sia già stata pronunciata sentenza di primo grado o vi sia già stata costituzione di parte civile (in tale ultimo caso, tacitamente revocata, art. 82 c.p.p.).
Ci sono diverse tipologie di reati previsti dall’Ordinamento e diverse sono le indagini svolte.
Uno dei casi è quando le persone vengono a conoscenza di essere indagate tramite l’elezione di domicilio regolato dall’art. 161 C.p.c.; altre volte attraverso gli arresti domiciliari oppure il sequestro di un oggetto.
Ci sono casi in cui le persone non verranno mai a conoscenza di essere state indagate perchè viene disposta l’archiviazione delle indagini prima ancora che il soggetto in questione possa essere a conoscenza della sua situazione di indagato.
L’avviso in questione può essere definito anche come una garanzia che l’indagato deve avere prima di diventare imputato. E’ un suo diritto.
Serve, oltre a rendergli noto, che un P.M. sta per esercitare l’azione penale nei suoi confronti, anche per avere il tempo di preparare la sua difesa prima che inizi il processo.
Ha anche il tempo di avanzare diverse richieste al P.M. stesso per indurlo a ripensarci oppure per indurlo a modificare l’ipotesi di reato.
Proprio per questo l’indagato insieme al suo avvocato difensore ha il diritto di prendere visione ed estrarre copia di tutti gli atti del fascicolo del P.M., di poter, nl termine di venti giorni, di produrre documenti, presentare memorie e di depositare le investigazioni difensive.
L’indagato può chiedere anche di essere sottoposto ad interrogatorio
E’ in questo momento che le parti necessarie per il processo cioè accusa e difesa entrino in contraddittorio.
Tale garanzie per l’indagato è necessaria e fondamentale.
A dimostrazione di questo sta il fatto che la richiesta di rinvio a giudizio ed il decreto di citazione sono nulli se non sono preceduti dall’avviso di parola.
Si acquista la qualità di “indagato” nel momento in cui la persona è inscritta nell’apposito registro degli indagati. (art. 335 C.P.)
Per poter indagare una persona, quindi, il Pubblico Ministero deve inscriverla nel “Registro delle notizie di reato”.
L’art.60 del C.p.p. dichiara che una persona acquista la qualità di imputato quando viene fatta nei suoi confronti la richiesta di rinvio a giudizio, oppure di giudizio immediato o di decreto penale di condanna.
Ancora per decreto di citazione diretta a giudizio, per decreto di applicazione della pena, ovvero il decreto di giudizio direttissimo
Mentre l’indagato è solo una persona sottoposta ad indagini preliminari, l’imputato è una persona che è sottoposta in tutto e per tutto ad un processo penale.
Tutti sono detti “delitti contro il patrimonio”.
La rapina è disciplinata dall’art.628 del Codice Penale. E’ commessa da chiunque, si impossessa della cosa altrui, attraverso violenza “alla persona”, per procurarsi o per procurare ad altri un “ingiusto profitto”.
Il furto viene commesso da chiunque si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola quindi al proprietario al fine di trarne un proprio profitto o per altri.(art. 624 C.P.)
L’interesse giuridico è di tutelare il patrimonio, per la rapina deve essere tutelata anche l’incolumità personale.
Le condotte della rapina e del furto sono simili per certi aspetti: entrambe richiedono che qualcuno di impossessi della cosa mobile altrui.
Se ne differenziano, tuttavia perché nella rapina c’è una condotta di violenza “alla persona”, ciò che non accade nel furto.
Per il furto poi, è sufficiente il fine del profitto, mentre nella rapina si parla di “ingiusto profitto”.
L’estorsione è commessa attraverso violenza o minaccia, da chiunque costringe un altro a fare oppure ad omettere qualche cosa, in modo da procurarsi dei profitti ingiusti per se stesso o ad altri.
L’estorsione ha elementi di contatto sia con la rapina che con il furto perché richiede violenza alle cose e alle persone.
La truffa viene commessa con raggiri ed artefici da chiunque che induce un altro in errore, procurando a se stesso e agli altri un ingiusto profitto e danni alla persona truffata.
La condotta della truffa è palesemente diversa dall’estorsione: il reo per ottenere lo scopo voluto, induce in errore la persona offesa, non ,o costringe a fare qualcosa mediante violenza o minaccia, come è richiesto appunto per l’estorsione.